mercoledì 5 giugno 2013

Riflettendo un po' sui diritti umani

I livelli di criminalità violenta sono rimasti elevati. Le autorità hanno risposto ricorrendo spesso a un uso eccessivo della forza e a torture. Giovani uomini di colore hanno continuato a costituire una percentuale sproporzionatamente elevata tra le vittime di omicidio. Sono pervenute notizie di tortura e altri maltrattamenti nel sistema carcerario, caratterizzato da condizioni crudeli, disumane e degradanti. Braccianti agricoli, nativi e comunità quilombola (discendenti di schiavi fuggitivi) sono stati vittime di intimidazioni e aggressioni. Sono rimasti motivo di grave preoccupazione gli sgomberi forzati, sia negli insediamenti urbani che nelle campagne”.
Quello che ho riportato è il paragrafo introduttivo al rapporto 2013 di Amnesty International riguardo alla situazione dei diritti umani in Brasile: in poche righe già si percepisce la criticità della situazione in cui si trova il Paese [1] .
Ora, parlare di diritti umani in Brasile significa aprire una parentesi piuttosto ampia. A livello federale come a quello statale esistono vari uffici e nuclei che agiscono per la tutela dei diritti umani: tra i più importanti menziono la Segreteria dei Diritti Umani dello Stato (SEDH), le sezioni diritti umani di Difensoria Pubblica, Ministero Pubblico e OAB (Ordine degli Avvocati), il Movimento Nazionale dei Diritti Umani (MNDH) e la Società dei Diritti Umani (SMDH).
Parlando di tutela del cittadino esistono, inoltre, nuclei specializzati all'interno della polizia per la difesa della donna e dell'infanzia e adolescenza: esistono l'ECA (Statuto dell'infanzia e dell'adolescente) e la legge “Maria da Penha” che hanno come obiettivo, rispettivamente, la creazione di meccanismi per ridurre la violenza domestica e familiare contro la donna e la protezione integrale del bambino e dell'adolescente.
La Campagna contro la tortura e l'impunità risale al 2001: pensata e promossa dal Movimento Nazionale dei Diritti Umani per implementare misure capaci di rendere effettiva la legge già esistente sulla tortura dentro il sistema di giustizia e di sicurezza pubblica, mise in atto un meccanismo di denuncia dei casi di tortura che ha portato ai giorni nostri alla creazione di Comitati statali per combattere la tortura nel Paese. Con tutto ciò la pratica è ancora una realtà diffusa, soprattutto all'interno delle carceri, ed è molto difficile ottenere che chi commette atti di tortura venga giudicato colpevole e punito.
Passando a descrivere la questione agraria, il cosiddetto “problema della terra”, e la situazione, molto diffusa nello stato del Maranhão, degli espropri forzati o sotto minaccia di morte, cito, solo per dare un'idea, la richiesta da parte di Amnesty International, che risale a pochi giorni fa, di includere nel programma di difesa della Segreteria dei Diritti umani e della Presidenza della Repubblica, un camponês (agricoltore) con la sua famiglia perché minacciati di morte da latifondisti e venditori di legname interessati ad installarsi nella regione.
Ritornando al rapporto di Amnesty e alla realtà quotidiana in cui viviamo, è facile rendersi conto che la sola legislazione e gli interventi pensati non risultano sufficienti a tutelare i cittadini e a contenere una situazione di violenza che, invece di diminuire, sembra aumentare di giorno in giorno.
Le morti per assassinio nella nostra città raggiungono una media di più di due al giorno per una popolazione di un milione di abitanti: numeri assurdi e che spaventano se si pensa che il più delle volte a morire sono giovani sotto i 25 anni e che gli assassini, d'altro canto, rientrano nella stessa fascia d'età.
Sono storie che, purtroppo, ascoltiamo tutti giorni: come quella della tragica morte di un giovane di soli vent'anni che partecipava alla vita della nostra comunità, picchiato a morte in seguito ad una lite, probabilmente legata a questioni di droga.
I Diritti Umani non sono solo una teoria o una realtà distante: vengono, di fatto, ignorati quando un giovane non ha molte altre possibilità di passare il suo tempo libero se non in strada, rischiando di entrare nei giri della droga e dello spaccio; non sono rispettati quando un adolescente resta a casa da scuola per più di un mese a causa di uno sciopero dei professori o, come è successo l'anno passato, un bambino salta lezione per quattro mesi di seguito senza che il sindaco o la governatrice facciano qualcosa; sono dimenticati quando un uomo o una donna restano per giorni senza farmaci e alimentazione all'interno degli ospedali pubblici; vengono negati quando uscire di casa, a qualsiasi ora del giorno, è un pericolo perché i livelli di sicurezza pubblica sono quasi inesistenti.
La realtà di una periferia come quella di Cidade Olimpica è complessa e dura: nell'anonimato della moltitudine il valore del singolo sembra perdere sempre più significato e, inserito nel mare magnum dei problemi, il diritto della persona appare del tutto marginale.
Il vuoto delle istituzioni è un dato di fatto, è concreto: se da un lato, infatti, ci sono la legge e le regole che non vengono sempre rispettate, la corruzione, i meccanismi che non funzionano, dall'altro ci sono le persone, le donne, i bambini, i giovani, gli anziani. Sono  loro che incontriamo tutti i giorni, con le loro necessità reali, con i loro problemi quotidiani. È per loro, perché la dignità della persona venga rispettata, che siamo chiamati a fare qualcosa.
Jean Vanier [2] in un suo libro scrive che “quando ci alleiamo agli esclusi della società, non solo diventiamo capaci di vedere le persone come persone e di unirci a loro nella loro lotta per la giustizia, di lavorare a favore della comunità e dei luoghi di connessione, ma sviluppiamo anche gli strumenti critici per vedere quello che di sbagliato esiste dentro la nostra stessa società (…) Diventare amico di una persona marginalizzata, esclusa, è un atto di auto-esilio dalla maggior parte del mondo. È liberatore, è un atto di libertà”.
In poche parole, vivere e lavorare a fianco di chi è escluso, di chi, come direbbe una certa pedagogia, è oppresso e accettare di lasciarsi toccare dalla vulnerabilità altrui, entrando in contatto, in questo modo, anche con la propria, è già un punto di partenza per il cambiamento. Cambiamento che deve succedere prima di tutto nel nostro modo di pensare, nelle nostre convinzioni, nelle nostre teorie sulla vita, nel nostro modo di vedere la società, nel percepire le reali necessità riordinandole secondo una nuova scala.
Non posso scegliere di allearmi agli esclusi senza, naturalmente, rivedere il contesto in cui questa esclusione si è creata, senza sentire la necessità di occupare il mio posto all'interno del grande quadro: è una decisione privilegiata e credo che questa, probabilmente, sia la più grande rivoluzione che un'esperienza come la nostra ci sta insegnando a compiere.
Quando sentiamo dire che il nostro lavoro, per quanto di buon cuore, resta inutile perché i risultati non sono visibili o perché le persone “non le cambi”, mi sento di rispondere che per chi crede nella persona e nell'essere umano nulla che sia fatto in prospettiva di un miglioramento e con uno spirito di cooperazione sia senza valore, o in vano.
Forse, veramente l'importante è cercare una direzione, cominciare a camminare e  seminare: è vero, noi non raccoglieremo i frutti ma abbiamo fiducia che qualcosa, da qualche parte, crescerà.
[1] solo per fare un rapido confronto bisogna ammettere che la realtà non è così rosea neanche nel nostro di Paese: discriminazione contro gli stranieri, assenza di una legge che sancisca e punisca la tortura, discriminazione di genere contro le donne e omofobia sono alcuni dei punti evidenziati nel rapporto sull'Italia ( per chi voglia approfondire rinvio alla pagina su internet http://rapportoannuale.amnesty.it/2013 ).
[2]  fondatore delle Comunità “Arca” che accolgono persone disabili in tutto il mondo